Su questo argomento è evidente l'interesse che si sta muovendo da tempo per i suoi risvolti sociali, etici ed anche politici.
L'incontro è stato seguito da un foltissimo pubblico molto interessato al tema, sul quale è seguito un lungo dibattito con molte domande poste al relatore. Non potendo, in questo momento, fare una sintesi del ricco e documentato intervento del prof. Lodovici, ci limitiamo a riportare sullo stesso argomento un intervento su "AVVENIRE" della prof.ssa C. Giaccardi.
Un'analisi
del dibattito culturale e giuridico. Non solo
ideologia: riappropriamoci del genere
di Chiara Giaccardi - Avvenire: 31 luglio 2015
Oggi la questione del 'gender' si pone
come spinosa ma necessaria. Al di là di incomunicabilità e fraintendimenti,
azioni di attacco e barricate difensive, proprio nella sua incandescenza il
dibattito segnala un nodo di senso ineludibile: quale rapporto intrattenere e
coltivare con la nostra dimensione biologica, in un tempo in cui i confini di
ciò che è 'naturale' si sono ridefiniti e sono continuamente forzati in ogni
direzione? La polarizzazione tra le fazioni opposte – no gender-pro gender – ha
ipersemplificato e in molti casi banalizzato la questione, e sembra arrivata a
un punto di stallo.
Per questo è importante uscire dalla
forma che il dibattito ha assunto e reincorniciarlo in modo nuovo. Una prima
questione, preliminare, riguarda la legittimità stessa del problema. Due
posizioni si contrappongono: la prima (no gender) sostiene che l’«ideologia
gender» esiste ed è unica; la seconda (pro gender) che non esiste ed è una
invenzione di chi non accetta i cambiamenti. Posta così, nessuno ha ragione; a
uno sguardo più ampio, ognuno ha le sue ragioni.
È vero che i «gender studies»
hanno una tradizione di ormai mezzo secolo, e sono nati proprio per denunciare
e contrastare posizioni teoriche astratte e pratiche consolidate, basate sulla
disuguaglianza: per mostrare che l’essere umano è sempre un essere situato
(prima di tutto in un corpo sessuato, poi in una storia, una cultura, un
territorio); che il preteso universalismo delle culture e delle regole sociali
è in realtà un’astrazione, che prescindendo dalla realtà la mortifica (nella
fattispecie, il punto di vista femminile); che rispetto alla nostra corporeità
la cultura è tutt’altro che irrilevante. Sin dalle origini i «gender
studies» hanno affrontato questioni di tutto rispetto, anzi, doverose.
E questa attenzione continua anche
oggi: basta dare un’occhiata, tra i tanti esempi, al bel filmato «Why gender
matters for social sciences» (Perché le questioni di genere nelle scienze
sociali) sul sito del Gender Institute della London School of Economics, per
rendersi conto che le questioni sono molte e che sull’asse delle differenze di
genere si giocano ancora oggi molto in termini di rispetto e pari dignità: chi
ha accesso a cosa, chi può fare cosa, è ancora fortemente determinato dal
genere.
La stessa ragione per cui Edith Stein,
in quanto donna, non poté essere titolare di una cattedra di filosofia, oggi fa
sì che, a parità di qualifica professionale e competenze, le donne vengano
pagate meno degli uomini, o addirittura, in alcuni Paesi, non possano avere
diritto all’istruzione né a guidare l’auto, per non parlare del resto. Una questione
sulla quale è recentemente intervenuto persino papa Francesco. Una tipica
questione di 'gender'.
Dunque gli studi di genere sono
diversificati al loro interno; hanno dato importanti risultati e molti possono
ancora favorirne in termini di giustizia sociale; non sono esclusivamente né
principalmente focalizzati sulla questione del 'genere sessuale come scelta'
che prescinde dalla natura. Se non si riconosce questo, si rischia di divenire
ideologici a propria volta. Il che non significa che il problema non esista.
Semplificando si può dire che oggi ci sono due scuole di pensiero sul 'gender',
che a loro volta presentano diversificazioni interne. Nella prima – essenzialista
– si opera un passaggio diretto dall’anatomico all’ontologico (le caratteristiche
corporee esprimono l’essenza della differenza di genere, ricavabile da esse); è
un approccio scientista-positivista, ma anche quella dei primi gender
studies femministi, con la tendenza a una visione scissa della sessualità,
che alimenta un dualismo contrappositivo e competitivo tra maschile e
femminile.
La seconda – culturalista-costruttivista
– insiste sul 'gender' come costruzione sociale, e presenta in realtà due
varianti. Una versione moderata, che sottolinea il ruolo della rielaborazione
culturale del dato biologico, e una radicale – oggi prevalente – secondo la
quale la natura non conta e vale solo il discorso sociale e la scelta
individuale (posizione che tende all’astrazione del 'neutro').
Oggi il dibattito sul 'gender' è
identificato con quest’ultima tipologia, che è la più insensata. Non bisogna
però cadere nell’errore della 'cattiva sineddoche': prendere una parte del
dibattito, la più discutibile, come il tutto e buttare il bambino con l’acqua
sporca. In realtà la battaglia ideologica sul 'gender' (perché una componente
ideologica è innegabile) si combatte più a colpi di diritto che di teorie che
la giustifichino.
Persino Judith Butler (con la quale
peraltro molte sono le ragioni di dissenso), autrice del celebre Questioni
di genere, ha affermato di recente che «il sesso biologico esiste, eccome.
Non è né una finzione, né una menzogna, né un’illusione. Ciò che rispondo, più
semplicemente, è che la sua definizione necessita di un linguaggio e di un
quadro di comprensione (...). Noi non intratteniamo mai una relazione
immediata, trasparente, innegabile con il sesso biologico. Ci appelliamo invece
sempre a determinati ordini discorsivi, ed è proprio questo aspetto che mi
interessa».
Di 'gender', dunque, non solo si può,
ma si deve parlare. Perché l’essere umano non è solo biologico, né dato una
volta per tutte al momento della nascita.
L’identità non è solo espressiva (tiro
fuori ciò che già sono) ma relazionale. Non solo biologica, ma simbolica. Dire
che semplicemente uomini e donne si nasce, o che semplicemente lo si diventa, è
contrapporre due verità che invece stanno insieme: uomini e donne si nasce e si
diventa. E in questo processo, che dura tutta la vita, contano tanti aspetti:
la storia, la cultura, la religione, l’educazione, i modelli, le vicende
personali, l’essere situati in un tempo, uno spazio, un corpo.
In ogni caso, non c’è mai un’aderenza
totale e senza resto tra il nostro essere biologico e il nostro essere umani.
In questo l’uomo è diverso dall’animale: alla certezza meccanica dell’istinto
corrisponde nell’uomo l’incertezza non garantita della libertà e della
responsabilità. Il dibattito su come ci riappropriamo (o non riusciamo a
riappropriarci) delle nostre caratteristiche anatomiche, e quanto il contesto
ci sostiene, ci ostacola, ci indirizza, ci offre le categorie è non solo
legittimo ma doveroso.
La forma che ha preso oggi il dibattito
sul gender, nella sua punta estrema, commette un errore epistemologico grave,
sovrapponendo elementi molto diversi tra loro: in particolare facendo
coincidere universalismo e astrazione da una lato, e non-discriminazione ed
equivalenza dall’altro, e rivelando così un problema con l’alterità concreta,
che si traduce in una cancellazione, di fatto, della dignità delle differenze.
Non a caso le nuove forme di educazione spingono alla promozione del 'neutro',
che è appunto la cancellazione delle differenze, una forma di discriminazione
violenta contro la concretezza del reale, rimosso in nome di una normatività
procedurale e astratta.
A questo si collega un altro dei
problemi della contemporaneità: il demandare al piano giuridico ciò che
andrebbe prima affrontato a livello culturale. Poiché non ci si riesce a
mettere d’accordo su cosa significa essere umani oggi, sui contenuti profondi
che ci riguardano, si spostano le decisioni sul piano astratto delle procedure,
come se fosse neutro dal punto di vista valoriale. Ma l’astrazione non
garantisce affatto la neutralità, e, di fatto, il legislatore finisce col
ratificare e rendere normativo il caso particolare. Quindi si dovrebbe parlare
oggi di 'ideologia giuridica' come minaccia effettiva alla libertà delle nostre
scelte, educative prima di tutto. Una deriva legata ai processi di
tecnicizzazione che, nell’illusione di garantire la vita collettiva
dall’arbitrio delle posizioni di valore, impongono senza nemmeno rendersene
conto i valori che li impregnano (efficientismo, fattibilità, controllo,
individualizzazione, assenza di senso del limite...).
Un’ideologia che si salda in modo
perfettamente funzionale, rafforzandolo, con l’individualismo radicale del
pensiero contemporaneo mainstream, e con lo strapotere dei sistemi
tecnoeconomici, ai quali fa buon gioco raccontare la favola della 'sovranità
dell’io', che ha ben pochi riscontri nella realtà.
A fronte di una 'idolatria dell’io'
che, come riconosceva Hannah Arendt, a partire dalla modernità ha preferito
scambiare ciò che ha ricevuto come un dono con qualcosa che ha fabbricato con
le proprie mani, un discorso sul 'gender' oggi dovrebbe uscire dall’opposizione
naturacultura (siamo naturali e culturali in quanto umani) e spostarsi sul
piano simbolico. Contro l’illusione idolatrica e tecnocratica di trovare il
termine che esprime esattamente, senza resto, ogni sfumatura possibile della
nostra identità sessuale, come i 56 profili di 'gender' proposti da Facebook,
dovremmo riaprirci alla parola simbolica, capace di ospitare in sé un’apertura,
una gamma inesauribile di possibilità espressive (quali la femminilità e la
mascolinità, nella loro dualità), e soprattutto una relazionalità costitutiva:
la mia identità di genere nasce dall’incontro delle differenze e si è costruita
nella relazione con altri, concreti come me. In un movimento di apertura e
scoperta che si chiama libertà: nella gratitudine per quanto ricevuto, nella
relazionalità del legame, nella consapevolezza che non siamo mai liberi dai
condizionamenti culturali eppure abbiamo la capacità di non esserne
completamente succubi, se solo evitiamo di aderire ottusamente al dato di
fatto.
Credo che un’antropologia cristiana
abbia, oggi, da portare un contributo positivo preziosissimo alla doverosa
riflessione sul 'gender'. Perché, con Hölderlin, «là dov’è il pericolo cresce
anche ciò che salva».
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