Il
valore del silenzio
(a cura di Vincenzo Bonato, monaco di Camaldoli)
Nell’esperienza cristiana il
comunicare e il tacere non sono posti in contrapposizione né si fa
un’assolutizzazione di uno dei due elementi. Afferma un padre del deserto: «La
sapienza sta nel sapere in quale momento parlare» e nel come farlo, aggiungo
io. «Vi è un uomo che sembra tacere e il suo cuore giudica gli altri: costui
parla sempre» (Poimen 27). Possiamo trovare consigli che sembrano contrastanti
o che realmente lo sono perché sorgono dall’esperienza che non è unitaria. Non
si tratta di stabilire delle massime che valgono sempre ma di fare attenzione
all’esperienza.
Su questo argomento molto
importante, offro dei semplici spunti, attinti dalle testimonianze di persone
che lo hanno vissuto in modo molto positivo. Il silenzio può essere anche molto
negativo, quando è indice di rifiuto della comunicazione o incapacità di
comunicare, fino a preparare esplosioni di violenza. Oggi forse per molti il
silenzio, più che lo stare zitti, potrebbe essere un esercizio per uscire dal
mutismo, dall’incapacità di relazionarsi, di comunicare e per cominciare a
parlare in modo umano.
Nel monachesimo, imparare a tacere è meno importante
dell’imparare ad osservare e ad esprimere i propri sentimenti. Un cuore che non
fa discernimento e non avverte le passioni e i movimenti interiori che lo
agitano, non potrà mai essere in quiete. Non si comincia mai dalla totalità,
ossia dall’amore pieno, ma dall’analisi sincera della nostra grandezza dentro
il nostro limite.
Nel nostro limite l'amore è intrecciato con l'odio. È
un’esperienza comune: i tifosi di una squadra che odiano i tifosi di un'altra;
i seguaci di una religione che si oppongono a quelli d’un’altra; la mamma che
impedisce una vera maturazione del figlio perché lo ama troppo.
Non dico nulla per quanto riguarda il lato umano. Dal punto di vista religioso, non dobbiamo nutrire disprezzo né avversione verso coloro che non condividono il nostro credo (o il nostro grande amore), neppure verso chi pensiamo abbia tradito la nostra causa. Non dobbiamo costringere nessuno a difendersi da noi.
Non dico nulla per quanto riguarda il lato umano. Dal punto di vista religioso, non dobbiamo nutrire disprezzo né avversione verso coloro che non condividono il nostro credo (o il nostro grande amore), neppure verso chi pensiamo abbia tradito la nostra causa. Non dobbiamo costringere nessuno a difendersi da noi.
Gesù voleva interrompere lo stile
degli uomini zelanti che difendevano Dio eliminando pagani o apostati. In Lui
appare questa grande novità che non è stata compresa in modo adeguato.
Esame di se stessi
Ho accennato all’attenzione a se stessi. Il silenzio, prima
ancora di essere assenza di parole, è attenzione al rapporto qualificato, non
immediato. Vi presento un testo di un maestro spirituale, Doroteo, che invita i
monaci a fare attenzione alla loro interiorità riguardo all’argomento del
rancore.
Si può rendere male per male non solo con le azioni, ma
anche con le parole e l'atteggiamento. Talvolta si prende un atteggiamento o si
fa un movimento o uno sguardo che turba il fratello: sì, si può ferire il
fratello anche con uno sguardo o un movimento, ed è anche questo un rendere
male per male. Un altro si studia di non rendere male per male né con l'azione
né con la parola né con l'atteggiamento o il movimento, però ha in cuore una
tristezza contro il suo fratello e si affligge contro di lui. Guardate che differenza
di stati d'animo. Un altro non ha neppure qualche tristezza contro il proprio
fratello, ma se sente dire che qualcuno lo ha afflitto o ha mormorato contro di
lui o lo ha offeso, si rallegra all'udirlo, e anche costui si trova a rendere
male per male nel suo cuore. Un altro invece non solo non ha nessuna cattiveria
e non gode a sentire che chi lo ha afflitto è stato offeso, ma si affligge
addirittura se quello viene afflitto: però non prova piacere se egli riceve del
bene, e si affligge se lo vede onorato o contento: ed è anche questa una sorta
di rancore, più leggera, sì, ma lo è pur sempre. Invece bisogna gioire per la
contentezza del proprio fratello e fare di tutto per servirlo e preparare ogni
cosa per dargli onore e soddisfazione.
2. Il silenzio è importante nella formazione della persona
religiosa: «Ciò che l’irrigazione è per le piante, è il silenzio continuo per
la crescita della conoscenza» (Un’umile speranza… 61). «Ogni uomo che si
dà al molto parlare, anche se dice cose degne d’ammirazione, sappi che è vuoto
dentro» (Isacco di Ninive I,65).
Perché il vuoto? L’incapacità di custodire il silenzio e di
controllare la lingua potrebbe essere segno di inquietudine che deriva
dall’avere una cattiva coscienza (per cui la persona sta male con se stessa);
può essere segno della volontà di dominio sugli altri - devo essere convincerli
delle mie opinioni per rafforzare il mio ruolo - ; di un bisogno affettivo
(avere sempre compagnia…). Neppure la logorrea sul piano catechetico o
apostolico è una cosa sana. Nell’esporre dobbiamo partire dal rispetto e dall’apprezzamento
della persona, delle convinzioni positive che ha elaborato e dei comportamenti
nobili messi in pratica. Dobbiamo alimentare la persona non costringerla ad
abbuffarsi. Per capire bene un cosa o per accoglierla, tutti abbiamo bisogno di
tempo. «Fa’ profittare con il tuo silenzio piuttosto che con la tua parola di
conoscenza colui che non può trarre profitto dalla conoscenza. Abbassati con
lui secondo la sua debolezza» (Un’umile speranza… 61).
Il silenzio iniziale, ossia l’apprendere a contenersi, è
soltanto una preparazione e un inizio del vero silenzio. All’inizio dobbiamo
costringerci (che è diverso dal farsi violenza o dall’essere costretti):
«Sforziamoci di tacere e, allora, dal nostro silenzio, sarà
generato in noi un qualcosa che ci condurrà al vero silenzio. Che Dio ti dia di
sentire ciò che è generato dal silenzio… Non credere che il silenzio [attuato
dal grande Arsenio] sia stato semplicemente un atto spontaneo: all’inizio ha
dovuto sforzarsi a fare questo. Dopo un certo tempo, dalla pratica di tale
esercizio, è generata nel cuore una qualche dolcezza; ed essa induce con
violenza il corpo a perseverare nel silenzio» (113).
La predicazione o il rapporto comunicativo con l’altro deve
essere preceduto dal silenzio, non per riflettere meglio su ciò che vogliamo
comunicare o annunciare ma anche per vivere una vera compartecipazione. Non si
deve mai parlare dall’alto in basso, convinti che la persona con cui tratto sia
inferiore a me. È necessario, al contrario, una vera compartecipazione. Lo
attesta Gregorio Magno parlando dell’atteggiamento che dovrebbe essere
mantenuto dagli evangelizzatori:
[Dice il profeta Ezechiele: Mi fermai presso i deportati
e rimasi in mezzo a loro sette giorni nella tristezza (Ez 3,15). Si osservi
con quanta compassione il santo profeta si unisce al popolo prigioniero e
dimorando con lui, si unisce alla loro desolazione poiché la parola è radicata
nella forza dell'azione. E chi ascolta accoglie volentieri la parola che è
detta con compassione da parte di chi predica ... Così il profeta si stabilì
con il popolo prigioniero e rimase in mezzo a loro afflitto; così, ponendosi
nella sua situazione accanto a esso a motivo della sua profonda carità, riuscì
a conquistarlo subito con la forza della parola ... Ora, quando furono
trascorsi sette giorni, mi fu rivolta la parola del Signore (Ez 3,16). Con
il fatto che rimase sette giorni nella tristezza e, dopo il settimo, ricevette
dal Signore l'ordine di parlare, il profeta indica chiaramente che durante quei
giorni era rimasto in silenzio. Era stato inviato a predicare, e tuttavia era
rimasto afflitto, in silenzio per sette giorni. Che cosa ci suggerisce il santo
profeta con questo silenzio se non che soltanto chi prima ha taciuto sa veramente
parlare? Il silenzio è in certo senso il nutrimento della parola. E giustamente
riceve la parola a opera di una grazia sovrabbondante chi per umiltà dapprima
ha taciuto come conviene fare. Per bocca di Salomone si dice infatti: C'è un
tempo per tacere e un tempo per parlare (Qo 3,7). Non si dice: "C'è un
tempo per parlare e un tempo per tacere", ma prima viene il tempo per
tacere e poi il tempo per parlare, perché non dobbiamo imparare a tacere
parlando, ma a parlare tacendo. Se dunque il santo profeta che era stato
inviato a parlare, dapprima custodì un lungo silenzio per poter poi parlare in
modo autentico, consideriamo quanto sia grande la colpa di chi non tace quando
nessuna necessità lo costringe a parlare (Gregorio Magno, Omelie su
Ezechiele 11,2-3).
Il nostro parlare, quindi, deve
nascere dalla compartecipazione
Silenzio mistico
Il rapporto maturo ed autentico con Dio implica che tutto
ciò che sperimentiamo nella relazione con Lui non sia riducibile alla sola
parola. Almeno la parola che ascoltiamo o che pronunciamo deve formare unità
con noi:
«Quando ripeti le parole della preghiera, preoccupati non di
ripeterle ma di diventare tu stesso quelle parole. Il nostro profitto non sta
nella ripetizione, ma nel fatto che la parola si incorpori in te e divenga
opera» (Giovanni di Apamea Discorso sulla preghiera 4-7).
Quando si è ciò che si dice, il dire sconfina
nell’indicibile e questa plusvalenza del parlare può essere chiamata silenzio.
«Colui che possiede in verità la parola di Gesù può udire anche il suo
silenzio» (Ignazio di Antiochia Efesini 13).
Anche noi sperimentiamo che il sentire spesso supera il
parlare. Questo fatto è avvertito anche nella relazione con Dio. Attesta Suso:
Signore, se penso alla tua alta lode, il mio cuore vorrebbe
sciogliersi nel mio corpo, i pensieri mi sfuggono, mi mancano le parole. Brilla
un non so che nel cuore che nessuno può esprimere a parole, appena
voglio lodare te, bene senza limiti; poiché se io sprofondo nel profondo abisso
del tuo proprio bene, Signore, svanisce ogni lode per la sua pochezza.
Per condividere questo sentire non occorre essere stati
elevati a gradi superiori di vita mistica. È un’espressione del credente
consapevole.
San Paolo dichiara di essere stato rapito vicino a Dio e di
aver udito discorsi ineffabili. I mistici conoscono esperienze elevate che non
possono tradotte nel linguaggio comune. Ciò che afferra l’uomo nella sua
totalità è più grande del suo parlare. Qui l’essere vale di più del dire.
Teresa d’Avila conosce una relazione intima con Dio che è fatta di silenzio e
di pace:
Il modo con cui Dio arricchisce ed istruisce l’anima in
questa orazione è così calmo e silenzioso da fare pensare alla costruzione del
tempio di Salomone, durante la quale non si sentiva il minimo rumore. Così in
questo tempio di Dio, in questa mansione che è sua: Dio e l’anima si godono in
altissimo silenzio. L’intelletto non ha movimenti né ricerche da fare. Chi l’ha
creato vuole che si riposi e contempli ciò che avviene come per una piccola
fessura (Castello interiore VII, 11).
Tale esperienza è un rivivere il riposo del sabato al
termine della creazione e un anticipo della beatitudine della vita eterna.
Comprendiamo meglio ciò che diceva Ignazio: «Colui che possiede in verità la
parola di Gesù, può udire anche il suo silenzio».